Accompagnato dalla colonna sonora di Leonard Bernstein, il musical West Side Story (Jerome Robbins & Robert Wise, 1961) si apre con gli strani titoli firmati da Saul Bass. Delle piccole linee verticali di diversa lunghezza, disposte in maniera apparentemente casuale, riempiono la parte superiore dello schermo; gli accesissimi colori dello sfondo si susseguono senza tenere conto dell’andamento della musica. Conclusasi l’ouverture, quei segni dall’aspetto così primitivo, simili a incisioni rupestri (o, più semplicemente, spartiti musicali), vengono sostituiti dai grattacieli di una New York anni Sessanta inquadrata attraverso un punto di vista aereo. Da quel momento la macchina da presa inizia a scorrere sui cieli di Manhattan, mostrandone il flusso caotico e le mastodontiche geometrie; il cinema di quegli anni doveva sottolineare la propria grandezza di sguardo (Broadway diventa un perfetto strumento produttivo) e la ricchezza del vivere statunitense (sebbene poi ne si sottolineino le contraddizioni). Dopo qualche minuto l’occhio della camera viene attirato da uno spazio recintato adibito ai giochi, habitat naturale dei Jets (gang di giovani americani bianchi). Il sole è alto e brucia i colori dell’Upper West Side, tra palazzi in mattoni, scale antincendio, negozi in legno e variopinti graffiti (di nuovo il mondo “rupestre”, un’intuizione geniale degli scenografi Boris Leven e Victor A. Gangelin). La quiete prima della tempesta: sarà solo una questione di tempo prima che arrivino gli Sharks (gang di giovani portoricani) e inizi l’ennesima sanguinosa lite per le strade della città. Fu così che nacque il cinema per ragazzi, all’insegna dell’insoddisfazione, della frustrazione, della rabbia, della guerra (Gioventù Bruciata di Nicholas Ray è del 1955).
Con sempre l’accompagnamento musicale di Bernstein, ma leggermente ri-arrangiato da David Newman (ed eseguito dalla Los Angeles Philharmonic del maestro venezuelano Gustavo Dudamel), il “remake” di West Side Story firmato da Steven Spielberg archivia in pochi secondi i titoli e spiazza lo spettatore immergendolo nella macerie. L’Upper West Side non è come lo si ricorda nel cinema classico, tantomeno nella realtà odierna: devastato, diroccato, smembrato, sembra sia stato appena bombardato dai caccia tedeschi o dai kamikaze giapponesi; le uniche forme di vita rimaste sono le macchine da scavo. La fotografia “scarnificata”, quasi argentea, di Janusz Kamiński (collaboratore dai tempi di Schindler’s List, 1993), riflette un microcosmo grigio, arido, al limite del distopico, che mescola le tipiche suggestioni fantascientifiche di Spielberg con le ombre espressioniste (lunghe, taglienti, torbide, oblique) di Orson Welles e le “rovine” del Neorealismo italiano. E dopo un piccolo piano-sequenza su questa teatrale città aperta arrivano i primi Jets, spuntano dal terreno come nati dalla polvere, dal calcinaccio, dalle palle demolitrici (le “bombe”). I loro fischi, cenni, smorfie, passi, schiocchi delle dita sono elementi della partitura del musical (Prologue, Jet Song) e segni di un’umanità selvaggia, regredita alla preistoria; Bass, Leven e Gangelin avevano visto lungo sul libretto di Arthur Laurents e i testi di Stephen Sondheim. Il casting è perfetto nel restituire tale idea, basti vedere al meraviglioso Mike Faist (Riff, capo dei Jets), il cui volto spigoloso è così accentuato (dal trucco, dalle luci e dalle inquadrature) da sembrare prosciugato: un ragazzino che imita i lati peggiori degli adulti perché costretto.
Siamo a cavallo degli anni Sessanta, si inizia a parlare di gentrificazione, e parte del West Side deve essere demolito per far spazio a nuovi palazzi di lusso e al maxi-complesso del Lincoln Center for the Performing Arts (quanta ironia dietro tale scelta). Questa finestra storica aggiuntiva permette a Steven Spielberg di ampliare lo sguardo sul musical andando oltre la lotta tra bande di diversa etnia per la conquista del territorio (come il mito della frontiera nel western o l’isola tribale de Il Signore delle Mosche di William Golding). Certo, il fatto che gli Sharks siano portoricani ha un suo valore intrinseco, ma il riadattamento firmato dallo sceneggiatore Tony Kushner si premura di sottolineare le origini europee dei Jets (irlandesi, polacchi, italiani) per rimarcare la fluidità dell’essere americano; fluido come il personaggio dall’attorə no-binary Iris Menas, una ragazza di nome Anybodys (lett. “di nessuno”) che rifiuta il proprio genere per far parte dei maschili Jets (comunque già presente nella versione di Broadway). Tutto ciò porta Spielberg a mettere in scena una più terribile guerra tra marginalizzati, reietti con «malattia sociale» (Gee, Officer Krupke), non diverso dal mondo-discarica raccontato nel precedente Ready Player One (2018), dove la “vita migliore” veniva ricercata dentro le arene di battaglia nella realtà virtuale OASIS. Invece in West Side Story le due fazioni si rifugiano nell’idea di un’America ricca di possibilità (Jet Song, Something’s Coming, America, I Feel Pretty) e per arrivarci sono disposte a qualsiasi cosa, anche cancellare i segni del passaggio dell’uno o dell’altro: fondamentale è la breve scena in cui i Jets imbrattano di vernice scura il murales di una bandiera portoricana (di nuovo le tracce rupestri, la memoria impressa sulla roccia), scatenando così l’arrivo degli Sharks capitanati dall’irascibile pugile Bernardo (David Alvarez).
Buona parte del fascino del cinema spielberghiano si fonda sulla sua capacità di dialogare con il cinema della Hollywood classica (e non solo), di aggiornarne il canone senza mai tradirlo, ed è questo che lo rende ancora oggi il regista più importante del cinema americano (e non solo). Come dimenticare la sequenza di E.T. L’Extraterrestre (1982) in cui Elliot, grazie alla connessione con l’alieno, ricrea il bacio romantico di Un Uomo Tranquillo (John Ford, 1952); o, per rimanere in tema, il numero musicale posto all’inizio di Indiana Jones & Il Tempio Maledetto (1984), quando la showgirl Willie esegue il brano Anything Goes dall’omonimo musical di Cole Porter (1934); oppure, ancora più recente, il finale di The Post (2017) che ricrea l’inizio di Tutti gli Uomini del Presidente (Alan J. Pakula, 1976). West Side Story è un altro esempio della sopracitata capacità perchè è una complessa e ispirata variazione sul tema (a sua volta già palese variazione di Romeo & Giulietta di William Shakespeare) che, con inimitabile maestria, mette in connessione il film del ‘61 con la poetica del suo autore; alla fine dei conti è possibile considerarlo un film originale e non un remake. Ma la ricerca della classicità non è soltanto un fattore ludico, citazionista, postmoderno; Spielberg ne conosce i meccanismi più profondi, quelli che stimolano con facilità l’immedesimazione e la commozione, essendo da sempre considerato erede di Frank Capra, e quelli che invece colpiscono o elogiano la società in cui sono stati pensati e creati. Qui si trova la chiave di accesso per riportare nei cinema la storia di West Side Story, risemantizzandola come un’opera politica dai tratti universali che affonda le radici nell’America del presidente Donald Trump (e non solo), nelle tensioni per la creazione del muro al confine con il Messico, nei movimenti suprematisti e in quelli (per fortuna) anti-razzismo.
Basti pensare al numero di strutture metalliche (recinti, scale, inferiate, scaffali, serrande) che si pongono davanti alla macchina da presa o impediscono il normale svolgimento di un dialogo, cantato o recitato, tra protagonisti. Steven Spielberg riprende un discorso che aveva decretato il finale amaro de Il Ponte delle Spie (2015), quando l’avvocato James Donovan (Tom Hanks), tornato negli Stati Uniti dopo le trattative nella Berlino divisa dalla Guerra Fredda, vede dal treno un gruppo di bambini che per gioco scavalcano i recinti che delineano le case di periferia; non può che tornargli alla mente quelle persone fucilate durante vari tentativi di fuga da Berlino Est scalando il neonato Muro. Anche in West Side Story il regista svela la natura orrorifica delle barriere (fisiche, ideologiche) per poi suggerire la via per scavalcarle se non addirittura annientarle. Il polacco Tony e la portoricana Maria, interpretati dagli emozionanti Ansel Elgort e Rachel Zegler, hanno la funzione di ponte tra due mondi divisi e iracondi, traghettatori shakespeariani di un concetto antico ma puro come l’amore, unico antidoto alla brutalità (il loro primo incontro porta dei colori più accesi nella fotografia di Kamiński). Riformulata già da Broadway sulle tipiche scale antincendio di New York, la “scena del balcone” (Maria, Tonight) simboleggia la volontà di abbattere ciò che ci separa, mostrando il ragazzo che cerca di raggiungere l’amata: stanco che il ferro gli impedisca la vista e il contatto fisico, decide semplicemente di scalare la struttura. Comunque molti altri sono i “ponti” che costellano il film e che, da un punto di vista metatestuale, testimoniano la ben nota straordinaria capacità dell’autore di cogliere le evoluzioni del presente. È impossibile infatti non pensare a quanto West Side Story si inserisca alla perfezione in uno zeitgeist tutto statunitense, con capofila le produzioni di stampo latino nate dalla mente di Lin-Manuel Miranda (Sognando a New York – In the Heights di Jon M. Cho e Encanto di Byron Howard & Jared Bush, entrambi del 2021); per non parlare poi della quantità di musical cinematografici usciti negli ultimi dieci anni, come Tick Tick… Boom! con la (prima) regia dello stesso Miranda (2021).
La presenza della leggendaria premio Oscar Rita Moreno (la Anita cinematografica originale, compagna di Bernardo) è sì il ponte più palese ma anche il più importante, perchè intreccia il film con la versione degli anni Sessanta (il classico) e con il cuore pulsante di Spielberg (l’autore). Commuove vedere l’inedito personaggio di Valentina, versione femminile e latina del negoziante Doc, tormentarsi per la storia che si ripete (Somewhere), lei che da giovane sposò un gringo (proprio Doc) consapevole che l’unione avrebbe generato reazioni violente; tra l’altro Valentina e la “nuova” Anita interpretata da Ariana DeBose (destinata, a ragione, allo stesso Oscar) si incontrano per una manciata di secondi, permettendo così alla tragedia di compiersi indisturbata ancora una volta. Questo ritorno ciclico della sofferenza spiega la scelta di una regia “di guerra”. Oltre alle sopracitate scelte estetiche con sfumature distopiche, si rimane piacevolmente colpiti dalla tensione con cui sono state inquadrate le coreografie di gruppo, quasi tutte metafore di scontri, duelli, battaglie. West Side Story non sarebbe potuto esistere senza i film a sfondo bellico del suo regista, infatti concettualmente siamo vicini all’immersività di opere come Salvate il Soldato Ryan (1998). Per questo motivo, a primo impatto, sembra il più pessimista della filmografia spielberghiana, quello più oscuro, disilluso e crudele, ma non è così.
In tale scelta si nota l’importanza di una coscienza storica contro il disastro, di una “scritta sul muro” come testimonianza del nostro passaggio, fatto di scelte giuste e sbagliate. Ma della Storia tendiamo a ricordare le grandi azioni e le grandi aspirazioni, dimenticandoci della centralità delle piccole storie, dalla semplicità delle emozioni. C’è lo sguardo rapito di Maria quando vede per la prima volta Tony dall’altra parte della palestra (The Dance at the Gym), la piccola lacrima di Tony per l’amico Riff che vuole giocare con le pistole (Cool), la speranza di Anita per il futuro che l’aspetta (America) o la disperazione di Bernardo nell’aver messo a segno un fendente con coltello (The Rumble). Bisogna scavare fino al fulcro del nostro vivere quotidiano, del nostro essere esseri umani che agiscono in funzione dell’amore (qualunque tipo). Per farlo Steven Spielberg ha firmato l’ennesimo capolavoro, forse il suo più significativo degli anni Duemila, un amarcord sotto mentite spoglie che mette nero su bianco cosa debba essere un remake nell’epoca dei sequel e che si inserisce all’interno di un’altra corrente dai tratti nostalgici che pare stia caratterizzando gli ultimi anni cinematografici (Alfonso Cuaròn, Martin Scorsese, David Fincher, Paolo Sorrentino, Kenneth Branagh…). È tornato indietro, alla sua origine, a quando nel salotto di casa ascoltava il vinile di West Side Story con il padre al quale il film è dedicato. E così dobbiamo fare noi spettatori, contro un mondo feroce che puntualmente cede alla tentazione di autodistruggersi.
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