Qual è la forma delle città dove viviamo? Come si è sviluppata? Rispondere a queste domande non è solo un esercizio accademico. Osservare un contesto urbano dal punto di vista formale, leggere la complessità delle relazioni tra edifici e tra parti della città significa capire dove siamo e, in ultima analisi, chi siamo. Per chi conosce la botanica un bosco è molto di più che una successione di foglie e rami, è un libro aperto e ricchissimo di storie. Con la serie Le città visibili, curata da Flavio Villani, vogliamo sfogliare qualche pagina del libro delle città. Siamo molte cose. Siamo anche quello che vediamo. Se non vediamo niente, è semplice: non siamo.
Non mi aspettavo questa lettera. Eppure ero sicuro di aver compilato tutti moduli e di averli inviati. C’è poco da fare. Mi tocca uscire e pure sbrigarmi. Da Bermondsey, dove vivo, conviene passare lungo il fiume, è la via più breve.
Oliver’s Wharf – Foto di Marco Amoroso
In un paio di minuti raggiungo la sponda meridionale del Tamigi. Quando ho tempo, mi fermo sempre a guardare la warehouse neogotica di Oliver’s Wharf, sulla parte opposta del fiume. Con la sua elegante facciata in cui si alternano pietra e mattoni policromi, oggi ospita residenze di lusso, ma fu costruita nel 1870 da Frederick e Horace Francis, come magazzino per il tè. L’impianto a più piani è quello tipico di ogni warehouse con affaccio sul fiume: in facciata sono rimasti ancora gli argani utilizzati al tempo per sollevare le merci dalle navi e trasferirle direttamente all’interno attraverso le grandi aperture centrali.
Sulla stessa sponda, poco più a est, si trovava l’execution dock, dove venivano impiccati pubblicamente i condannati a morte, per la maggior parte pirati e contrabbandieri. I corpi degli impiccati venivano lasciati lavare da almeno tre maree prima di essere portati via.
Vista dal fiume con il cantiere – Foto di Marco Amoroso
Da ormai qualche mese la vista sul Tower Bridge, sui grattacieli della City e sulla cupola di St Paul, è oscurata da un enorme cantiere con una gigantesca struttura d’acciaio che copre uno dei più bei panorami urbani al mondo. La recinzione è decorata con varie immagini. L’occhio mi cade sempre su una in cui si vede un uomo in barca, che con una mano si tappa il naso e con l’altra consegna un foglio a una sorta di lurida divinità fluviale che spunta dall’acqua, ancora più lurida. Il cantiere è uno degli ingressi principali della talpa meccanica che scaverà la Super fogna, l’opera che sostituirà i canali sotterranei per la raccolta e lo scarico delle acque di rifiuto d’epoca vittorian,a ormai obsoleti e non più adeguati alle esigenze di una metropoli che sfiora i 9 milioni di abitanti. Il tunnel principale (7.2 metri di diametro e lungo circa 25 chilometri) correrà parallelamente al Tamigi e raggiungerà i 65 metri di profondità, ben al di sotto della metropolitana, che in media sta sui 24 metri sottoterra.
Recinzione Faraday – Foto di Marco Amoroso
La rivoluzione industriale fece crescere Londra rapidamente, ma in molte zone si viveva in condizioni di povertà estrema e senza le minime condizioni igienico-sanitarie. Per la vicinanza al porto, in quartieri come Bermondsey, a sud del fiume, e l’East End, sulla sponda opposta, si affollava la maggior parte di quelli che arrivavano in città in cerca di lavoro. Nella prima metà dell’Ottocento gli scarichi delle acque reflue avvenivano ancora direttamente in strada o in pozzi neri. Bastava così un po’ di pioggia, che da queste parti non manca mai, per far finire tutto nel Tamigi. Come descrive Charles Dickens in Oliver Twist, nelle strette e buie strade dove si trovavano le abitazioni più povere l’acqua piovana stagnava, mischiandosi alle acque di scarico e alle carcasse di topi in putrefazione. Le epidemie di colera erano continue, quelle più devastanti furono nel 1831, nel 1848 e nel 1854. L’acqua era così contaminata che era più sicuro bere birra o gin.
Dopo qualche ricerca, ho scoperto che l’immagine è tratta dalla rivista satirica ottocentesca Punch e rappresenta il fisico Michael Faraday che consegna, tappandosi il naso, il proprio biglietto da visita a una sudicia personificazione del Tamigi. In una lettera pubblicata nel 1855 su diversi giornali per denunciare questa situazione, Faraday descrisse le disastrose condizioni del fiume e l’orribile puzza che questo emanava. L’acqua era così torbida che una striscia di carta bianca immersa nel Tamigi scompariva subito alla vista. L’estate del 1858 fu un’estate particolarmente calda e l’aria divenne così irrespirabile che il fenomeno passò alla storia come The Great Stink (la Grande Puzza). Da giugno in poi gli effluvi prodotti dagli scarichi umani e dagli scarti del mattatoio risultarono così forti da arrivare fino dentro l’aula del Parlamento di Westminster. Per proseguire le sedute si appesero a tutte le finestre tende imbevute di cloruro di calcio, perché si credeva che la puzza portasse anche infezioni. Si pensò addirittura di spostare il Parlamento a Hampton Court, sempre lungo il Tamigi, ma circa 20 chilometri a monte dal centro di Londra. L’anno successivo l’ingegnere Joseph Bazalgette fu incaricato di progettare un nuovo sistema fognario che risolvesse il problema della puzza e delle epidemie di colera. Gli studi compiuti nel 1854 da John Snow, il fondatore della moderna epidemiologia, avevano collegato proprio l’insorgenza del colera all’inquinamento della rete idrica.
Joseph William Bazalgette (1819-1891) Credit: Wellcome Library, London. Wellcome Images
Bagalzette fece costruire dei collettori che correvano parallelamente al Tamigi, intercettando la capillare rete di scarichi, che così non finivano nel fiume nel suo tratto urbano, ma si riversavano in questo più a valle, in prossimità della foce, ormai fuori dalla città. Bazalgette ebbe inoltre l’intuizione di progettare tubazioni con un diametro maggiore di quello richiesto al tempo. La sua lungimiranza ha permesso alla rete fognaria di assorbire il maggior carico di portata negli anni successivi, fino ad oggi.
La maggior consapevolezza dell’importanza dei temi legati alla salute pubblica, gli studi di epidemiologia e una rete moderna di fognature progettata proprio per ridurre l’inquinamento del fiume e allo stesso tempo migliorare le condizioni igienico-sanitarie dei cittadini stessi, contribuirono a trasformare in positivo e ad ammodernare una città che si poneva come capitale dell’impero britannico, centro mondiale del commercio e della finanza. La rete sotterranea e invisibile progettata da Bazalgette è stata innovativa e rivoluzionaria così come un’altra infrastruttura che negli stessi anni cominciava a vedere la luce con i progressi dell’ingegneria, rivoluzionando per sempre la vita quotidiana dei londinesi: la metropolitana, o come viene familiarmente anche chiamata, The Tube.
Contestualmente, furono realizzate alcune importanti infrastrutture come il Victoria Embankment, che fornì alla sponda nord del Tamigi un moderno argine con strade, passeggiate e giardini a protezione della rete fognaria sottostante.
Il deflusso degli scarichi avveniva per gravità e fu necessario costruire stazioni di pompaggio lungo i collettori, da Chelsea a Deptford, fino ad Abbey Mills. Senza dubbio la più spettacolare è quella di Crossness, nei pressi di Thamesmead, una vera e propria “Cattedrale delle fogne”, in una zona fortemente paludosa più a valle lungo il Tamigi, a circa 20 chilometri dall’East End londinese.
L’esterno, dominato dall’alta ciminiera oggi demolita, realizzato con muratura a vista, è solenne, finemente decorato con una successione di bifore e trifore con capitelli scolpiti in stile neo-normanno. All’interno, i quattro giganteschi motori a vapore responsabili del funzionamento delle pompe sono inseriti in un ampio spazio definito da un tripudio di ottone luccicante, colonne in ghisa dipinte con colori accesi, scale a chiocciola e schermature metalliche decorate da motivi vegetali, tra cui foglie e frutti di fichi, inseriti non a caso per le loro qualità lassative.
Reeds Wharf – Foto di Marco Amoroso
Mi devo sbrigare. Non mi posso permettere di arrivare tardi. Proseguo verso ovest e sono a Reeds Wharf. Passo davanti a una warehouse che oggi ospita uffici e abitazioni. Qui, nell’estate del 2007, ho fatto il primo colloquio di lavoro dopo il trasferimento a Londra. Questo edificio è stato anche il set di alcune scene del film Un pesce di nome Wanda, tra cui quella in cui l’ex Monty Python John Cleese viene appeso per i piedi a testa in giù fuori dalla finestra. Quel colloquio, molto positivo, ha costituito il mio primo impatto con Londra da cittadino europeo, libero di spostarmi e lavorare nel continente. In pochi giorni sono così passato da un cantiere romano con vista sul Grande Raccordo Anulare a uno studio di architettura con vista sul Tower Bridge. E senza essere appeso per i piedi fuori dalla finestra.
St Saviours Dock – Foto di Marco Amoroso
Superato il canale di St Saviours’ Dock, che delimitava la zona di Jacob Island, descritta sempre da Dickens in uno dei capitoli finali di Oliver Twist come una delle aree più sporche, strane e bizzarre di Londra, eccomi in quello che era il cuore dei Docklands: Shad Thames, un canyon stretto tra alte warehouses in muratura collegate tra loro da ponti in ferro, forse la strada meglio preservata, che racchiude più di ogni altra l’atmosfera ottocentesca dei Docklands. Immagino la street, oggi vuota, affollata di operai e facchini, e il silenzio attuale sostituito dalle urla degli scaricatori di porto e dal rumore dei carri in movimento, mentre ai livelli superiori le merci vengono trasportate sui ponti in ferro da un magazzino all’altro.
Shad Thames – Foto di Marco Amoroso
L’edificio principale è Butler’s Wharf. L’area è conosciuta anche come Spice Wharf, perché in questi magazzini si raccoglievano le spezie provenienti dalle colonie. Nella toponomastica moderna si è conservato il profumo del passato: su Shad Thames si affacciano il Cardamom Building, il Cinnamon Wharf, i Ginger Apartments e il Vanilla & Sesame Court, oggi tutti trasformati in eleganti residenze. I magazzini di Shad Thames furono chiusi nel 1971 e rimasero vuoti per anni, finché caddero in stato di abbandono, nonostante alcuni edifici fossero occupati temporaneamente da artisti. I magazzini erano ancora così impregnati dell’odore delle spezie, che nei giorni di pioggia bastava girare lì intorno per sentire profumi di paesi lontani, ma la zona divenne malfamata e di notte nessuno si avventurava da quelle parti. Il recupero di quest’area si deve al designer e imprenditore Sir Terence Conran, il fondatore della catena di negozi di arredamento Habitat, che ne comprese le potenzialità e nel 1981 investì nella trasformazione delle warehouses in abitazioni con ristoranti e attività commerciali al piano terra.
Butler’s Wharf – Foto di Marco Amoroso
Sulla sponda opposta del fiume, dietro un grigio albergo brutalista degli anni Settanta, scorgo il complesso dei St Katharine Docks, costruito intorno a un bacino collegato al Tamigi da una chiusa e inaugurato nel 1828. Alle sue spalle sorge la massa dei grattacieli della City, che ogni anno aumenta in larghezza e in altezza. È questa la caratteristica della città: il suo passato è sempre visibile ai londinesi e convive senza contraddizioni con il suo presente. Da qui, con una sola occhiata, si vedono la White Tower costruita da Guglielmo il Conquistatore, l’ultimo invasore straniero sul suolo britannico, il Tower Bridge e i grattacieli, tra cui spiccano il 30 St Mary Axe e il Leadenhall Building, ribattezzati dai londinesi, che amano i nomignoli scherzosi, il Gherkin (il Cetriolo) e il Cheesegrater (la Grattugia).
City Tower Bridge Skyline – Foto di Marco Amoroso
Non è proprio il caso di mettersi a guardare il panorama, però, anche se sono quasi arrivato e il Comune è a due passi. Che nostalgia. Vedo i pub su Butler’s Wharf, che con la pandemia sono tutti chiusi, e mi tornano in mente i ricordi delle prime uscite con i colleghi il venerdì sera. La birra dopo il lavoro, per celebrare l’inizio del fine settimana, è un rituale con le sue regole e il suo vocabolario. Per prima cosa, il cibo non è contemplato: eating is cheating. Poi è buona regola che a turno ognuno offra agli altri un giro. Come si può immaginare, il numero di boccali che si beve nella serata è proporzionale al numero di colleghi che compongono il gruppo e non a caso passare da un pub all’altro viene definito pub crawl perché, con il progredire della serata, camminare diventa sempre più difficile e si comincia a strisciare. Se una notte di febbraio chiacchieri davanti al pub con un tipo in t-shirt, è perché lui è protetto dalla beer jacket. E se pensi che la ragazza o il ragazzo con cui hai ballato tutta la sera sia la creatura più bella che tu abbia mai conosciuto, è solo perché indossi la maschera dei beer goggles.
Canary Wharf vista da Bermondsey – Foto di Marco Amoroso
I Docklands sono stati fondamentali per lo sviluppo di Londra. L’area è nata intorno a quello che per secoli è stato l’unico ponte di Londra, il London Bridge. Nel corso dell’Ottocento si è sviluppata lungo il Tamigi verso il mare, su entrambe le rive, con una successione di moli, banchine, warehouses, mulini e piccole fabbriche. Nel 1876 fu deciso di realizzare un nuovo collegamento tra le due sponde in quest’area della città ormai congestionata dal traffico. Per non ostacolare il passaggio di navi, si rese necessaria la progettazione di un ponte a campata mobile, il celeberrimo Tower Bridge appunto, inaugurato nel 1894.
Dopo Bermondsey, il Tamigi descrive nel suo corso verso est una larga ansa che forma la penisola di Rotherhithe. Qui c’era un bacino artificiale e i magazzini di stoccaggio del legname proveniente dal Canada, oggi trasformato nel quartiere residenziale di Canada Water. Oltre il centro commerciale di Surrey Quays si trova un bacino ancora più grande e più antico, il Greenland Dock, che accoglieva le baleniere che tornavano cariche di grasso di balena, che veniva lavorato sul posto per ottenere il prezioso olio. Di fronte al Greenland Dock, ma sull’opposta sponda del Tamigi, in un’area storicamente chiamata Isle of Dogs, anche se in realtà è una penisola, si trova Canary Wharf, che ospitava i magazzini per la frutta, in arrivo soprattutto dalle Canarie. Canary Wharf è forse il quartiere che rappresenta in maniera più emblematica la storia dei Docklands. Dopo decenni di grande attività e prosperità, il suo declino cominciò con i bombardamenti tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Più che i danni causati dalle bombe, a segnare il destino di Canary Wharf furono l’industrializzazione dei porti e l’arrivo dei containers, che richiedono ampi spazi per le operazioni di manovra e logistica: presto le diverse aree cominciarono a non essere più operative e finirono in uno stato di degrado e abbandono.
Gli attuali Docklands di Londra, cioè la sua area containers, si trovano fuori città, a Tilbury, non lontano dall’estuario del Tamigi. Per la riqualificazione di Canary Wharf, nel 1981 fu creata dal governo Thatcher la London Docklands Development Corporation. Gli inizi non furono molto promettenti. L’idea di trasferire sedi di banche straniere e società di trading dalla City ormai congestionata in questa nuova area si scontrò con il mancato supporto di alcuni gruppi finanziari, cui si aggiunsero la crisi immobiliare degli anni Novanta e i ritardi di costruzione dell’estensione della linea di metropolitana Jubilee Line.
Canary wharf/skyline – Foto di Marco Amoroso
Canary Wharf inizialmente era collegato alla città solo dalla linea metropolitana leggera automatizzata Docklands Light Railway. Fu nel 1999, con l’apertura dell’enorme stazione della Jubilee Line, progettata dall’architetto inglese Norman Foster, che arrivò l’impulso decisivo per lo sviluppo immobiliare e finanziario dell’area. Per molti anni la torre di 1 Canada Square dell’architetto argentino-statunitense César Pelli è stata l’unico grattacielo in Canary Wharf. Con i suoi 235 metri di altezza, è stata anche il più alto edificio del Regno Unito fino al 2012, quando fu completato lo Shard di Renzo Piano. Oggi lo skyline di Canary Wharf è molto diverso da quello di venti anni fa. La penisola è affollata da un vero e proprio cluster di torri in continua crescita che di notte, con le loro luci, ricordano la downtown di una metropoli americana o asiatica.
The Shard – Foto di Marco Amoroso
Ritorno su Shad Thames e oltrepasso il Tower bridge. Eccomi finalmente di fronte alla City Hall. Prima di entrare, mi fermo un secondo a pensare. Il passo è importante. Ho preso questa decisione quando ho capito che la Brexit si sarebbe fatta davvero, dopo lo sciagurato referendum del 2016. Alzo gli occhi sullo Shard, la Scheggia. I suoi 310 metri di altezza sono visibili da molti quartieri londinesi, ma solo quando ci si avvicina lungo la Queen’s Walk si rivela tutta la sua imponente eleganza. Allo Shard sono molto affezionato, sia perché il primato di edificio più alto nel Regno Unito appartiene a un grattacielo progettato da un architetto italiano, sia perché l’ho visto crescere nei miei primi anni a Bermondsey. Il progetto dello Shard rientra nel piano di riqualificazione dell’area della stazione di London Bridge, importante nodo di interscambio metropolitano del quadrante sud-est della città. La prima volta che sono arrivato a Londra, la stazione ferroviaria era una sorta di non-luogo caotico. Nel 2018 è stata completamente rinnovata su progetto dell’architetto inglese Nicolas Grimshaw ed è diventata una stazione moderna ed efficiente, con un’alta permeabilità di percorsi pubblici che intersecano le zone pedonali intorno allo Shard stesso. Sulla piazza della stazione degli autobus si affaccia un altro edificio progettato da Renzo Piano, il News Building: 17 piani destinati a uffici e sedi di giornali e radio. Il sistema di facciata è simile a quello dello Shard, con il risultato di un design complessivo omogeneo e di un dialogo armonioso tra i due edifici.
Nemmeno lo Shard ha avuto inizi promettenti, sia per le obiezioni dovute alla sua altezza, sia per l’incertezza dei mercati finanziari nel 2007. Il progetto si è sbloccato solo l’anno successivo, con l’intervento di un consorzio di fondi sovrani del Qatar. Per la costruzione sono stati utilizzati sistemi innovativi come il metodo top-down, per la prima volta utilizzato in un edificio di simili dimensioni, che ha permesso di accelerare i tempi del cantiere con enormi benefici economici e di tempo. Lo scheletro portante dei primi 23 livelli è stato realizzato parallelamente alle fondazioni, prima che lo scavo dei livelli interrati fosse completato. Con una forma rastremata verso l’alto, una sorta di una piramide a base irregolare, lo Shard ha una struttura di tipo misto, con un core in cemento armato e una serie di livelli in cui si alternano diversi materiali: cemento armato per le strutture del seminterrato, acciaio dal piano terra al livello 40, cemento armato dal livello 41 al 69 e di nuovo acciaio fino al livello 95. La scelta è stata determinata dalle diverse esigenze funzionali e impiantistiche dei vari livelli, considerando che la metà inferiore della torre è destinata a uffici, mentre la metà superiore è destinata ad alberghi e abitazioni. Sugli ultimi due livelli della Scheggia sono state realizzate terrazze panoramiche aperte al pubblico, da cui nei giorni di tempo limpido si vede il mare alla foce del Tamigi. Realizzare la guglia finale in acciaio e vetro ha rappresentato un’altra sfida ai limiti dell’impossibile con gli operai che dovettero montare i pannelli di facciata ad oltre 300 metri d’altezza, spesso dovendosi fermare per i forti venti e con il supporto di una gru fissata al core, a sbalzo nel vuoto oltre il perimetro della facciata già realizzata.
Walkie Talkie – Foto di Marco Amoroso
Già da qualche anno lo Shard ha sulla sponda opposta del fiume un rivale che con l’edificio di Renzo Piano dialoga in tensione e che alla snellezza della Scheggia contrappone una mole massiccia: il grattacielo di 20 Fenchurch Street, conosciuto come il Walkie Talkie, opera dell’architetto uruguaiano Rafael Viñoly. Il Walkie Talkie è stato completato nel 2014 ed è alto 160 metri. È destinato a uffici e all’ultimo piano ospita un ampio sky bar con giardino pensile e terrazza panoramica aperta al pubblico. Al contrario dello Shard, il suo volume si rastrema leggermente verso il basso, guadagnando superficie commerciale ai livelli più alti e maggiore disponibilità di spazio pubblico alla base. A questo edificio è collegato un curioso episodio che ricorda come le figuracce per un architetto siano sempre dietro l’angolo, se già nelle prime fasi di progettazione l’orientamento e la geometria di un edificio non sono valutati in tutti i loro aspetti. La forma concava della facciata, rivestita di pannelli di vetro ed esposta a sud, si è infatti rivelata, subito dopo la sua costruzione, un enorme specchio ustorio, che in un giorno di sole ha bruciato gli zerbini all’ingresso di alcuni negozi e addirittura ha fuso la portiera di una Jaguar. Lo spiacevole effetto è stato risolto con l’introduzione di uno strato di lamelle frangisole su tutta la facciata meridionale, con ulteriori costi non previsti per il proprietario dell’edificio.
City Hall da fuori con lo Shard sullo sfondo – Foto di Marco Amoroso
Entro nella City Hall. La rampa elicoidale, che si sviluppa in uno spazio a tutta altezza sopra la sala dell’assemblea, mi ricorda la cupola del Reichstag di Berlino. D’altronde, sia la City Hall che la cupola del Reichstag sono state firmate dalla stessa mano, quella di Norman Foster. L’edificio è stato inaugurato nel 2002 e già cerca un nuovo inquilino. Per gli alti costi di affitto, lo scorso novembre il Comune ha deciso di spostarsi in un palazzo di sua proprietà costruito nel 2012, su progetto dello studio inglese Wilkinson Eyre e noto come The Crystal, sempre lungo il Tamigi ma ancora più a est, nell’area dei Royal Docks (gli ultimi grandi docks iniziati nel 1855 e completati nel 1921). La zona dei Royal Docks, oggi sede dello spazio fieristico ExCel e del sempre più trafficato London City Airport, è interessata da un nuovo e intenso sviluppo urbano. Questo spostamento mira anche a innescare un ulteriore e decisivo sviluppo economico del quartiere, come avvenuto in passato per altre aree dei Docklands.
City Hall, interno – Foto di Marco Amoroso
Ho consegnato l’ultimo documento necessario per l’acquisto della cittadinanza britannica. Per me, che mi sono trasferito nel 2007 con l’idea di un’Europa unita, con la libera circolazione delle persone e delle merci e un titolo di studio pensato proprio per poter lavorare in un continente senza barriere, la Brexit è stata la disillusione più totale. Nei miei primi anni londinesi andavo spesso a pranzo alla mensa della City Hall, che era aperta al pubblico. Ci si mangiava bene e anche a buon prezzo. Mi è capitato di trovarci Boris Johnson, al tempo sindaco, anche lui con il suo vassoio e la zazzera bionda sempre spettinata. Allora era una Londra un po’ guascona, proprio come il suo primo cittadino, con l’entusiasmo per le imminenti Olimpiadi del 2012 e il desiderio di voltare pagina dopo gli attentati del 2005. Ora è la Londra di Boris Johnson primo ministro. La città è stata ancora vittima di attentati, a due passi da qui, sul London Bridge, nel 2017 e nel 2019, è fuori dall’Europa e nella morsa di una spaventosa pandemia, che ha messo in ginocchio l’economia della città.
Di fronte a questo skyline in continua trasformazione, ma che mantiene sempre un suo armonioso equilibrio, sono convinto che anche questa volta Londra riuscirà a rialzarsi. Mi tornano in mente le parole di un altro Johnson, Samuel: When a man is tired of London, he is tired of life. Chi è stanco di Londra, è stanco della vita.
Marco Amoroso (Roma, 1975) è laureato in Ingegneria Edile – Architettura. Dal 2007 vive a Londra e dal 2009 lavora presso lo studio Zaha Hadid Architects, attualmente con il ruolo di associato. Nel tempo libero adora viaggiare e fare foto.
Qui la prima uscita de Le città visibili