Architettura, interior e product design, oltre a fotografia e a proposte d'evasione, tra poesia e viaggi 'a tema' in Paesi lontani: 9 novità editoriali da acquistare in libreria oppure online
Se la domanda "quali libri leggere in agosto?" ci lascia senza parole, ecco i suggerimenti per superare l'impasse. Complice come ogni anno la stagione delle vacanze, che invita ai ritmi lenti sottofondo ideale delle nostre letture, possiamo comporre le nostra reading list ideale. Oltre ai 'buoni propositi', i volumi che da sempre vogliamo leggere ma non ne abbiamo mai avuto il tempo, ai 'classici', che meritano sempre di essere presi in considerazione, si deve aggiungere assolutamente l'elenco delle novità editoriali di questo mese, disponibili in libreria oppure in line. I titoli di agosto spaziano dall'architettura all'interior design e al design di prodotto. Pronti a scoprire le architetture moderniste di Hong Kong costruite negli anni '50-'70 o a conoscere il lavoro di uno dei fondatori dell’architettura radicale fiorentina? Altrimenti, tra le uscite fresche di stampa di agostoci sono il volume consigliato a chi è alla ricerca di ispirazioni nell'ambito dell'interior design, con un excursus in tutto il mondo tra i 400 interni più interessanti dal punto di vista progettuale ideati dall'inizio del XX secolo a oggi, insieme alla monografia dedicata a un'artista e designer le cui creazioni offuscano i confini tra arte, decorazione e design. Da non perdere, per la sua originalità e completezza, anche lo studio di design che ha come unici protagonisti i tombini, incredibili interpreti delle trasformazioni urbane e il racconto delle esperienze artistiche di una dinastia di fotografi, che ha avuto come capostipite un maestro assoluto. Completano la nostra lista alcune letture estive pensate come proposte di evasione, un libro di poesia di un architetto, designer e teorico che indaga tematiche esistenziali, una guida per conoscere la Bali 'mistica', tra architetture in bambù e paradisi naturali e spirituali, e per finire un viaggio nel Giappone meno conosciuto, dove riscoprire un modello di convivenza tra uomo e natura autentico.
Un coffee table book imperdibile per chi è alla ricerca di ispirazioni nell'ambito dell'interior design. Castelli, abitazioni e attici di città, ranch nel deserto, dimore di campagna, case sulla spiaggia e mini-appartamenti: questa nuova edizione del volume, edito da Phaidon (dopo la prima pubblicazione del 2019), compie un excursus in tutto il mondo tra 400 interni particolari e significativi dal punto di vista progettuale, ideati da architetti e designer, ma anche da icone di stile, decoratori, artisti e star del cinema, dall'inizio del ventesimo secolo a oggi, per offrire una panoramica il più possibile completa nell'ambito del design degli interni. I progetti delle 'rooms' sono organizzati proprio come una sorta di enciclopedia in ordine alfabetico dalla A alla Z, per includere grandi protagonisti dell'interior design e della decorazione, come Joe Colombo, Piero Portaluppi, Eero Saarinen Elsie de Wolfe, Billy Baldwin e Colefax & Fowler, insieme a interpreti contemporanei come Anouska Hempel, Kelly Hoppen e Karim Rashid. Ma tra gli esempi 'eccellenti' di "Interiors: The Greatest Rooms of the Century", proposto con un'elegante copertina in velluto nero, ci sono anche le case, originali e uniche spesso anticipatrici nel dettare nuovi stili nel mondo del design, di personaggi del mondo della cultura e dell'arte, della moda e del cinema, a partire da Giorgio Armani, Yves Saint Laurent, Christain Dior e Calvin Klein, oltre a Donald Judd e CY Twombly o a Peggy Guggenheim. Ogni interno, corredato da una descrizione e una scheda informativa, è introdotto da una fotografia, che come scrive William Norwich autore dell'introduzione, “parla almeno come mille parole”.
Un prodotto comune e diffuso ovunque che si caratterizza per una particolare anomalia: rappresenta “ un caso unico nella storia del design di un oggetto privo di scadenza”. Parliamo dei tombini, nelle diverse versioni date da chiusini, caditoie, grate o botole, protagonisti assoluti del libro pubblicato da LetteraVentidue, attraverso la ricerca interessantissima e allo stesso tempo affascinante del suo autore, Alfonso Morone, che finalmente, per la prima volta, ne approfondisce i diversi aspetti progettuali. Attraverso una descrizione critica e un'ampia documentazione grafica , analizzando i tombini sotto il duplice aspetto produttivo e visivo, l'intento del libro è di riportarli nell'ambito degli studi del design. Sono manufatti "sine die", “sempre identici perché non soggetti ad alcuna sostanziale innovazione o evoluzione funzionale, dovendo assolvere il compito immutabile di fornire un coperchio in ghisa che, nel calpestio stradale, eviti rischi di scivolamento o di rottura ma che, al contempo, è oggetto di un’incessante differenziazione per la varietà delle grafiche in rilievo e delle geometrie del contorno”, spiega bene nell'introduzione Morone. Non solo, la virtù di indistruttibilità traghetta i tombini nella direzione dell'economia circolare, essendo la ghisa riciclabile un'infinità di volte, e la loro apparente marginalità, in realtà, è in grado di svelare le tracce del progresso della tecnologia nel contesto urbano. La prima parte del libro esplora proprio il ruolo del tombino all’interno delle dinamiche di trasformazioni urbane, che sono derivate dalla rivoluzione industriale, e l'evoluzione del rapporto con la cultura progettuale, per approdare all'attualità. Il racconto parte dai primi esemplari documentati a Londra, intorno alla metà del XIX secolo - ma non poteva essere diversamente essendo la città fulcro della rivoluzione industriale -, quando le botole in ghisa erano l'accesso dalla strada ai depositi di carbone collocati in scantinati sotterranei, fino ad arrivare alle reti cablate delle smart city dei nostri giorni. I tombini, infatti, “con la loro presenza hanno segnato la progressiva avanzata dei sottoservizi e con essi l'affermazione di un nuovo modello urbano, quello della città industriale, giunto a noi attraverso l'espansione delle nuove infrastrutture digitali”, scrive l'autore. Non dimentichiamo che “i chiusini, o più comunemente detti tombini, sono i pori della città, il limite fisico tra ciò che sta sopra e sotto il manto stradale. Potremmo anche paragonarli a dei cerotti urbani, e come tali ognuno di loro può contenere un messaggio per raccontare, anche al più distratto passante, cosa si cela sotto di lui”, come scrivono nell'introduzione a loro affidata Giulio Iacchetti e Matteo Ragni, per altro vincitori del Compasso d'Oro nel 2014 proprio con una serie di tombini in ghisa ideati per Montini. I tombini come strumento narrativo è un altro degli aspetti esplorati da Morone, quale prodotto in cui i pattern grafici soddisfano accanto alle primarie esigenze funzionali, evidenti necessità comunicative. Così attraverso quelle cover si possono scoprire storie di aziende, sistemi di servizi e un passato di cui non si avrebbe altrimenti più traccia, perso nella memoria collettiva. Altre pagine di "Tombini d’Italia" sono dedicate al racconto dei vari aspetti progettuali, dalla produzione dei tombini all'analisi di forma e funzione. La seconda parte del volume, invece, racchiude una ricostruzione grafica e una documentazione fotografica di tombini ancora in uso in ogni regione d’Italia, esito di una ricerca durata circa quattro anni sulla base di un dossier fotografico di 500 pezzi relativi a tutto il territorio nazionale, coinvolgendo casualmente grandi e piccole città, a dimostrazione di un'estetica industriale che si è affermata ovunque, senza alcuna discriminazione. Il libro presenta anche un catalogo 'numismatico' di 248 pezzi accuratamente ridisegnati, un'inedita collezione di segni grafici e marchi. Completano lo studio di design, i primi cataloghi di aziende siderurgiche che mostrano esemplari di tombini, chiusini e grate in ghisa, e una serie di immagini di alcuni importanti fotografi europei e statunitensi, come Dora Maar, Lee Lockwood, Louis Stettner, Thurston Hopkins che nel corso del Novecento “hanno letto la presenza della modernità nelle metropoli attraverso questi manufatti”. Una nota particolare: non mancano i riferimenti ai tombini nel mondo dell'architettura, dalla Looshau di Adolf Loos a un edificio residenziale a Basilea di Herzog e de Meuron, del cinema e dell'arte.
La sua visione artistica lo ha reso riconoscibile fin dai primi progetti, le sue creazioni che offuscano i confini tra arte, decorazione e design, sono vibranti nei colori, giocose e piene di fantasia e ottimismo. Gestalten, in collaborazione con Hayonstudio, dedica una monografia a Jaime Hayon, invitando a entrare nel suo mondo. Il libro presenta l'originale lavoro dell'artista e designer spagnolo, approfondendone tutti i principali aspetti, dal suo rapporto con i materiali alla teoria del colore, dall'ispirazione e dal processo creativo alla tecnica impiegata. Le pagine mostrano creature ceramiche misteriose, oggetti di design dalle lavorazioni accurate, spazi domestici ispirati nei colori alla sua anima mediterranea ,ma anche importanti progetti di interior design ideati per hotel, ristoranti, gallerie e show-room di brand dell'arredo. Il progetto grafico del volume è di Zaven.
Che estate sarebbe senza potere realizzare un viaggio? Il volume, pubblicato da Assouline, invita a scoprire una "Bali mystique", l'isola nel cuore dell'arcipelago indonesiano che l'autrice definisce “magnetica e alchemica”, delineandone il profilo attraverso il suo vissuto personale e le sue esperienze. Elora Hardy, fondatrice e direttrice creativa dello studio di architettura Ibuku, famoso per l'approccio progettuale rispettoso dell'ambiente e le realizzazioni in bambù, costruite sull'isola e nel mondo, a Bali è cresciuta insieme ai suoi genitori 'visionari', che l'hanno spinta, attraverso le loro esperienze, ad approfondire le ricerche su quel materiale naturale così presente. Con Hardy, e Ibuku, la cultura progettuale legata al bambù evolve verso un nuovo stile, strutture in bambù curvato, che ridefiniscano il paesaggio di Bali e, quindi, conquistano il resto del mondo. Non solo però hub di architetture 'naturali', l'isola degli dei, come racconta l'autrice procedendo per capitoletti tematici, è un paradiso tropicale tra vulcani, montagne ricoperte di foreste, le sue spettacolari risaie terrazzate, le spiagge di sabbia nera e il mare destinazione privilegiata dai surfisti. Bali concentra le “molte ondate di cultura e religioni che si sono diffuse sulle isole dell'arcipelago portate da marittimi, mercanti e religiosi”, scrive Hardy. Così l'energia è unica, in questa terra solcata da siti sacri, ricca di templi e cerimonie religiose che caratterizzano la vita quotidiana, famosa per lo yoga e la meditazione spirituale che vi vengono diffusamente praticati. Bali è un paradosso, “perché incoraggia sia le mattine consapevoli che le notti indulgenti, la dimensione mistica coabita con la vita notturna, i club, i ristoranti, i negozi e i resort di lusso. Per Hardy, “come trattiamo Bali è come trattiamo il mondo. Se Bali ci accoglie, se riusciamo a trovare un modo per entrare nella danza, allora abbiamo intravisto il paradiso”. Da qui il suggerimento prezioso: “lasciare che le nostre menti siano flessibili come il bambù”.
Il volume edito da Quodlibet è incentrato su Gianni Pettena, documentando in ordine cronologico tutto il suo lavoro, o quasi, al quale si aggiunge un'ampia selezione dei testi da lui scritti tra il 1970 e il 2020. Pettena, tra i fondatori dell’architettura radicale fiorentina degli anni Sessanta e Settanta insieme con Archizoom, Remo Buti, 9999, Superstudio, UFO e Zziggurat, ha nei loro riguardi mantenuto sempre una posizione personale autonoma. Oltre a criticare il funzionalismo modernista, a frequentare il mondo dell'arte legato a quella stagione, si è distinto per la sua particolare visione progettuale. D'altra parte, anche in ambito internazionale è conosciuto come “l’anarchitetto”, - giocando semanticamente tra l’idea di non-architettura e quella di anarchia ed esprimendo, diversamente da anti-architetto, una condizione creatrice o un’arte di vivere più che uno stato di fatto. Pettena stesso crea quella definizione, usandola come titolo del libro scritto nel 1973 sul lavoro di ricerca, sugli incontri, i luoghi e gli avvenimenti per lui importanti di quegli anni. Nelle prime pagine del libro, la conversazione di Pino Brugellis e Alberto Salvadori con Pettena, delinea i tratti principali del percorso dell'architetto nato a Bolzano nel 1940. Come critico e docente Pettena scrive molto sul “radicale” e sulla necessità di ripensare i “fondamentali” dell’architettura, presenta per la prima volta in Italia il lavoro di architetti altrove ben noti come Richard Meier, Bob Venturi o Hans Hollein, oppure quello di giovani emergenti, che poi diverranno famosi, come Zaha Hadid, Rem Koolhaas o Nigel Coates, ha curato grandi rassegne sul design più sperimentale, in definitiva ha scelto il linguaggio dell’arte piuttosto che il progetto d’architettura, anche se è un aspetto forse non ancora indagato a sufficienza, si legge nel dialogo a tre. Quindi è la volta dell'importante esperienza negli Stati Uniti che rappresenta una svolta nella “maniera” di operare di Pettena e della frequentazione di (an)architetti come Buckminster Fuller o James Wines, attenti all’ecologia e alle periferie. Se in Italia il lavoro aveva anche intenti polemici, di ribellione a uno status quo non condivideva, a Minneapolis la forza della natura fu uno strumento per esprimere idee di architettura, di indagini sullo spazio e l’uso che di questo poteva essere fatto, idee che Pettena avevo cercato di fisicizzare anche in contesti diversi. Quindi l'attività di storico e critico dell'architettura e le opere dal 2000 in poi in cui la natura è protagonista. “Si tratta di un rapporto con l’ambiente, con il paesaggio, che si traduce spesso in progetti effimeri, reversibili, il cui valore è a volte solo documentario: un’architettura mentale che spesso si traduce in esperienza fisica, creando o rinnovando la necessità del rapporto con l’ambiente”, spiega Pettena. Più in generale l’unicità del suo lavoro, anche sul piano storico, consiste nel rifiuto dei codici e dei canoni consueti della progettazione, nella realizzazione di interventi temporanei e in una continua ricerca di alleanze con l’arte concettuale, il radical design austriaco, la land art e la musica sperimentale.
Un altro linguaggio come strumento di progettazione oltre quelli dell'architettura e del design, la poesia. Chi lo utilizza è Andrea Branzi, architetto, designer e teorico. “Nel regno dei viventi", edito da Corraini, riunisce ventisei poesie del progettista, affiancate da illustrazioni realizzate dallo stesso Branzi che indagano grandi tematiche antropologiche, la vita, la morte, il destino, l’universo umano ma anche il regno animale, considerati punti cardine della cultura progettuale. Un invito a riflettere sulle problematiche più urgenti dell'esistenza, secondo la visione e il ritratto che Branzi tratteggia nella sua intensa esplorazione. “Le mie poesie nascono dunque senza una precisa committenza e senza una finalità letteraria, come riflessioni su argomenti, a volte ironici a volte drammatici, che mi sono serviti a cercare di approfondire lo spessore del mio segno”, scrive Branzi.
Il volume pubblicato da DOM publishers ha come oggetto le architetture moderniste di Hong Kong costruite negli anni '50-'70, documentando oltre 300 edifici che furono costruiti in quegli anni di trasformazione. “I decenni di ricostruzione, il boom economico e il rapido sviluppo urbano del dopoguerra avevano plasmato visibilmente la città e creato un paesaggio urbano inconfondibilmente moderno, con caratteristiche proprie come l'iper-densità, la verticalità e l'interconnessione. Mi sono reso conto che c'erano un'abbondanza di edifici ed elementi architettonici che erano sistematicamente simili, tuttavia con una marea di distinzioni e variazioni tra le diverse tipologie funzionali, edilizia residenziale pubblica, edifici privati a uso misto”, scrive Koditek nella prefazione. L'intento del libro è di 'mappare' quegli edifici modernisti, onnipresenti e alquanto comuni, ma allo stesso tempo molto caratteristici e "very Hong Kong", lasciando una traccia documentale prima che possano scomparire, viste le continue e attuali riqualificazioni della città, incoraggiate da uno dei mercati immobiliari più caldi del mondo e da alti profitti commerciali. Koditek, in veste di vagabondo urbano e urban planner per professione ha fotografato le facciate moderniste, per attirare l'attenzione sulla bellezza e sui dettagli di architetture che fanno parte del nostro quotidiano, ma che spesso trascuriamo. Ad attrarre l'autore non sono solo le qualità estetiche degli edifici ma le storie che si celano dietro gli edifici. Quali sono le condizioni che hanno generato queste architetture? Chi sono gli architetti e perché hanno scelto quelle particolari soluzioni progettuali? Il libro cerca di fornire risposte, attraverso le immagini a pagina intera delle architetture moderniste, documenti e testi che spiegano e illustrano il design e il background di questi edifici. Completano l'opera i saggi di Cecilia L. Chu, Eunice Seng, Ying Zhou, and Charles Lai. La lista delle referenze costruite negli anni 50-70, che non vuole essere né accademica né esaustiva, include edifici architettonici e storici iconici, alcune pietre miliari e reperti speciali architettonici e urbanistici, come altrettanti esempi dell'abbondante architettura "anonima" e di "ogni giorno" che ancora domina il moderno paesaggio della città. “Insieme queste costruzioni del dopoguerra rappresentano un'importante parte della storia di Hong Kong. Influenzati dai principi chiave del Movimento Moderno, ma limitati dai codici costruttivi, da siti confinati e dall'efficienza di costi e tempi, i loro architetti locali hanno creato edifici allo stesso tempo funzionali e razionalisti, minimalisti nelle loro geometrie, ma radicati nel loro tempo e luogo. Complessivamente raccontano molteplici storie del 'modernismo pragmatico' di questa città cosmopolita”, spiega Koditek..
Il Giappone di Lorenzo Colantoni non è quello più appariscente e conosciuto. Il suo conduce nelle campagne silenziose, dove abitano alberi millenari, nei luoghi dove regna la tradizione e le foreste sono sacre. Il libro pubblicato da Laterza invita a riscoprire un modello di convivenza tra uomo e natura che appartiene al passato, intraprendendo un viaggio che dalle montagne sotto la vecchia capitale imperiale di Nara conduce fino alla città sacra di Hongu. “Il Giappone è quel luogo dove i fantasmi sono reali. È un paese che nasconde la propria spiritualità dietro alle luci brillanti dei malls, al cemento degli uffici e delle autostrade, al fumo dei bar e degli izakaya. È nelle campagne silenziose, nell’intimità delle case, che appaiono i fantasmi della tradizione, gli dèi dello shintoismo e gli eroi delle leggende, i tengu e gli spiriti dispettosi che interagiscono con gli umani. Conoscere questo Giappone è molto complesso per un gaikokujin, uno straniero, perché è difficile esserne accettato, è difficile da comprendere, difficile da trovare”, scrive l'autore. Per farlo ha dovuto lasciarsi alle spalle la città, le guide per 'gettarsi nel vuoto'. “È così che li ho incontrati, questi spettri reali, per la prima volta in una foresta tanto imponente quanto dimenticata.. E da lì questi fantasmi mi hanno seguito per tutto il mio viaggio, tra le decine di villaggi abbandonati, gli ultimi monaci animisti al mondo, gli alberi millenari grandi come torri e venerati come dèi. Erano con me tra le case piccole, dai tetti blu, immerse nella nebbia, circondate dal tè profumato di rugiada, negli altari nascosti dal muschio, nella foresta che divora la vallata e i suoi abitanti”.
Il racconto delle produzioni artistiche di Edward Weston, dei suoi due figli Brett e Cole Weston, e della nipote Cara percorre un secolo di fotografia, tra storie e immagini di un mondo in continua trasformazione. Le opere dei fotografi Weston sono per la prima volta raccolte nel volume pubblicato da Skira, progettato in collaborazione con la famiglia. In primo piano ci sono le immagini di Edward Eston, chiave di volta nella storia della fotografia del secolo scorso che dalla rappresentazione della realtà in chiave pittorialista di fine Ottocento e primo Novecento approda a un'interpretazione modernista e surrealista, costituite dai ritratti plastici, i nudi che esaltano forme e volumi, le dune di sabbia, gli oggetti trasformati in sculture, i celebri vegetables e le conchiglie esposte in primissimo piano. Quindi la narrazione visiva procede con le foto del figlio Brett, che ritrovano la lezione del padre nel paesaggio, studiato e restituito con geometrie che ricordano l’astrattismo in pittura; gli scatti del figlio Cole che si distacca dal padre attraverso l’utilizzo del colore, e della nipote Cara, fotografa ancora in attività e raffinata interprete del bianco e nero, vicina ai temi classici reinterpretati secondo un codice contemporaneo.