Dario Scappocin, l’ultimo fabbro dei Navigli: «La balena di sei metri in Darsena e le insegne al neon per piazza Duomo- Corriere.it

2022-08-12 17:55:01 By : Mr. peng xu

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La bottega storica e i ricordi del padre Bruno detto «il Santo», artigiano e geniale inventore di macchine galleggianti: una Milano d’altri tempi che sopravvive nei suoi angoli più nascosti

Dario Scappocin, il fabbro dei Navigli

«Mi sunt el fieu del Santo»: così si presenta Dario Scappocin, «el Feree dei Navili», ed è un valido lasciapassare in tutta la zona. La Milano di una volta, che resiste anche oggi nei suoi angoli più segreti, era piena di questi personaggi caratteristici, modi di dire e mestieri tramandati di padre in figlio per generazioni. «Il Dario» lavora nella stessa officina di suo padre Bruno Scappocin, geniale fabbro ed artista, soprannominato dalla gente «il Santo» perché generoso e sempre pronto ad aiutare chiunque.

Gallery: Il fabbro Dario Scappocin, «el feree dei Navili»

La famiglia Scappocin è orgogliosamente di casa in corso San Gottardo 18, dal 1961. Bruno arrivò da Padova a Milano, nel 1948, in bicicletta, per trovare lavoro. Le due sorelle sposate l’aspettavano. Erano gli anni della ricostruzione e «il Santo» aveva più che voglia di lavorare e farsi una posizione. La sua prima casa furono due box in via Digione: in uno lavorava e nell’altro dormiva. Qualche anno più tardi incontrò Bruna , si sposarono, nel ’61 nacque Dario. Il resto è storia.

«La gente lavorava, ma aveva il pregio di non prendersi troppo sul serio», racconta Dario. «Questa corte prima era una via, che da corso San Gottardo portava sui Navigli. Fino ai primi anni ’80 ci conoscevamo tutti, era come un piccolo villaggio con i suoi negozi, i laboratori, depositi di granaglie, le stalle dismesse. Oltre alle tantissime famiglie, con miriadi di ragazzini vocianti, la Darsena era il grande stomaco di Milano». L’officina è in una tipica casa di ringhiera milanese , un tempo di proprietà della famiglia Mezzanotte, poi riscattata dagli inquilini. «I bagni erano in comune sul ballatoio , ci si riscaldava con la legna e in casa c’era solo l’acqua - fredda - del lavandino in cucina», Dario prosegue il suo racconto.

«Queste case nascevano come depositi di merci , che dalla Darsena arrivavano e partivano per raggiungere l’Italia e l’Europa, materie prime o trasformate a Milano e provincia. Da qui con i barconi proseguivano il loro viaggio. Questi cortili erano punteggiati dalla vita di questa moltitudine, come un grande spettacolo popolare quotidiano , con i suoi ritmi, le sue celebrazioni e i propri riti». Dario ricorda benissimo la festa dei Navigli in giugno, i bagni nella Darsena, i pranzi o le cene di cortile . Della grande famiglia del quartiere facevano parte anche i vigili, i «ghisa», che per la gente erano un vero aiuto morale e dispensatori di consigli.

Il «ghisa» Colnaghi, il «Santo» e il falegname della porta accanto erano gli animatori della festa sui Navigli: ogni anno costruivano una «macchina» galleggiante diversa, la balena, la balilla, il pee vunc (il piede sporco). «Una volta costruirono una culla con dentro il Battista, vetraio di zona, vestito da lattante, con il biberon in bocca e la cuffietta, e sfilarono in Darsena. La gente impazziva per queste cose», racconta Dario. Quando uscì «Pinocchio» di Comencini, con Manfredi e la Lollobrigida, il fabbro Scappocin costruì una balena, lunga sei metri, con la coda che si muoveva e la bocca che si apriva: «Mio padre si faceva inghiottire dalla balena, su e giù per la Darsena, fu un successo pari allo sceneggiato. Nino Rossi, il poeta della canzone in milanese, ci scrisse addirittura una canzone».

Allora la gente faceva il bagno nel Naviglio, nonostante l’acqua fosse più sporca di oggi. Dario ricorda ancora le lavandaie , intente al lavoro nel Vicolo dei lavandai. «Mio padre ogni tanto si esibiva con tuffi spettacolari nel Naviglio dal ponte di via Lagrange, travestito da prete o da donna». Lui e tutti gli amici erano frequentatori della mitica “Briosca” prima e del “Tredes” dopo. I locali del Pinza, altro personaggio caratteristico dei Navigli, con le sue serate di irriducibili. Tutto questo durò finché il Comune non istituzionalizzò la festa dei Navigli, imponendo orari, regole e quant’altro. Una volta persa la spontaneità, il gruppo perse la voglia di divertirsi spensieratamente: era il 1975, da lì il «Santo» smise di partecipare con le sue invenzioni.

Questo nel tempo libero. Ma a Milano si lavora, e Dario, appena finita scuola al Feltrinelli, comincia a darsi da fare con il padre e lo zio. «All’epoca il nostro principale lavoro era montare i neon pubblicitari di Milano . Mio zio era un artista “soffiatore al neon” e realizzava le scritte pubblicitarie, poi mio padre andava a installarle. Alle tre di notte andavamo a lavorare, con qualsiasi tempo, ci arrampicavamo sopra i tetti. Papà trasportava i neon in bicicletta, quando ancora i pavé di Milano erano lisci come campi di bocce. Tutte le vie principali erano lastricate di pavé, e i neon delicatissimi. Eravamo noi a lavorare sulla famosa facciata, dirimpetto al Duomo, che ospitava le insegne: la dattilografa della Kores, Caffè Kimbo, Ricoh, Toshiba . C’erano 150 trasformatori e chilometri di tubi e cavi. Poi, a partire dal 1989, le luci su palazzo Carminati si spensero e noi, dovemmo adattarci con lui. iniziando a costruire strutture per i manifesti pubblicitari, ma non era più la stessa cosa». Conclude il Dario: «Adesso aspetto la pensione, ho 61 anni e 42 di versamenti, speravo di andare con quota cento, adesso me l’hanno spostata a 104...».

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